Matakiterangi
MATAKITERANGI
(occhi che guardano il cielo)
di e con Sonia Antinori
regia Heidrun Kaletsch
scene Eugenio Pacchioli
costumi Francesca Faini
disegno luci Francesco Dell’Elba
ufficio stampa Mariella Iannuzzi
organizzazione Michela Cavaterra, Fiorella Battaglia
documentazione video Daniele Bonazza
foto di scena Tommaso Le Pera
con il patrocinio dell’Archivio Storico Olivetti di Ivrea
Il progetto è stato realizzato grazie al supporto dell’Amat e del Teatro Comunale G. Mestica di Apiro
L’Isola di Pasqua, la Rapa Nui dei polinesiani, è stata una delle ultime terre ad essere scoperte dagli occidentali (nel 1722) a causa della sua posizione di estremo isolamento, al centro di un immaginario cerchio d’acqua dal raggio di 3700 chilometri circa, nel cuore dell’Oceano Pacifico. Con i suoi 178 chilometri quadrati di estensione è un territorio che ha ospitato una civilizzazione complessa e a tutt’oggi misteriosa, che ha trovato maestosa espressione nei moai, giganteschi monoliti che ne punteggiano le coste, ma anche nell’unica forma di scrittura dell’antichità oceanica, conservata con non più di una ventina di tavolette rongo-rongo nei più importanti musei di tutto il mondo. Ma l’isola, visitata da Cook (1774) e da Chamisso (1816), narrata da Loti (1872) e cantata infine da Neruda, ha conosciuto dalla metà del Settecento una decadenza da imputare all’incauto sfruttamento delle sue risorse, che, unita alle aggressioni degli avventurieri e di governi conniventi, l’ha ridotta a un passo dall’annientamento. La sua storia crudele così come la sua gloriosa preistoria ne hanno fatto oggetto di studi e di riflessioni delle più disparate discipline, fino a identificare in essa una sorta di laboratorio del pianeta terra, in cui grazie alle minime dimensioni è possibile verificare i pericoli di un disastro ecologico prodotto dall’interazione di fattori come disboscamento e sovrappopolazione. Ma il tragico destino di questo triangolo di terra spuntato dal mare è continuato fino agli anni Sessanta, quando i suoi abitanti erano confinati in un ghetto delimitato da filo spinato, per lasciare spazio agli allevamenti della compagnia anglo-scozzese che l’aveva presa in affitto dal governo cileno, o ancora più recentemente, con le emigrazioni e i conseguenti ritorni di quegli indigeni che, finalmente liberi di abbandonare la loro terra in cerca di fortuna, vi avevano poi cercato nuovo riparo in seguito al golpe di Pinochet. Ad oggi l’isola è dilaniata da una crisi di identità che ben rispecchia l’ambigua natura di un popolo che se dell’antica cultura maori continua a conservare il carattere indomito e combattivo, della vocazione a un’economia di mercato, filtrata attraverso le esperienze della piattaforma neoliberista del regime militare cileno, ha imparato l’abbicci. Ecco così che il turismo al tempo stesso lusinga e minaccia il remoto micromondo, attraverso una malintesa concezione di imprenditoria privata che cambia di giorno in giorno l’immagine selvaggia dell’isola, minando i delicati equilibri di una comunità da poco uscita dalla dimensione tribale.